La dottoressa Maria Moriondo è una biologa del Laboratorio di Immunologia del Meyer. Il suo lavoro lo racconta con grande freschezza, nonostante, con l’arrivo della pandemia, i ritmi del Laboratorio si siano fatti più che mai intensi.
Già, perché in queste grandi stanze piene di luce, tra le altre attività, si processano i tamponi Covid dei piccoli pazienti dell’ospedale, dei loro familiari, quelli del personale e una quota di quelli del territorio. Questo vuol dire che, in certi giorni, si sono toccati anche gli 800 campioni processati e refertati.

“Adesso le nostre giornate cominciano sempre con l’urgenza non solo di analizzarli, ma anche di dare risposte a chi le aspetta con ansia: ci preme comunicare l’esito con la massima velocità, per dare riscontro alle paure delle persone, tranquillizzarle e non lasciarle nell’incertezza”.

Naturalmente il lavoro non finisce qui: il Covid esige priorità, ma il resto non può rimanere indietro.

“Nel nostro laboratorio, ad esempio, si analizzano i test di screening neonatale per le immunodeficienze e quelli per diagnosticare malattie batteriche invasive come la meningite: nessuno di questi esami può attendere e per questo siamo sempre operativi”.

Giorno e notte, sette giorni su sette, con uno spirito di squadra che si respira nell’aria e si legge negli occhi della quindicina di specialisti al lavoro tra cappe e microscopi. C’è un valore aggiunto tra quelle provette, e lo fanno i loro sorrisi, complici e resistenti anche nei giorni più duri della pandemia.
È così che, con grande naturalezza, proprio in seno a quel laboratorio, è nata l’idea di mettere a punto un “doppio tampone” capace di rilevare sia il coronavirus, sia il virus respiratorio sinciziale, altro tormento che l’autunno scorso ha creato tante infezioni pediatriche:

“È successo perché ci siamo resi conto che in quelle settimane era cambiata la priorità. L’epidemia di coronavirus aveva rallentato, però si era imposta questa nuova emergenza che richiedeva diagnosi altrettanto rapide”.

Detto, fatto.

“Questo è il bello di lavorare in un ospedale pediatrico come il Meyer: il nostro laboratorio è fluido, completamente al servizio dei bambini e quindi possiamo dare seguito con prontezza a intuizioni come questa”.

I ragionamenti di questa biologa sorridente si dipanano con una linearità che rassicura: il momento chiede, la scienza risponde.
E lo fa con cura e con passione. Qualche notte fa la nostra biologa non riusciva a dormire e si è messa a fare i calcoli, realizzando che ha trascorso più tempo della sua vita al Meyer, che fuori: ci lavora da 3 giorni dopo la laurea – 27 anni fa – e lei di anni ne ha cinquantuno. Sorride: “Buffo no?”. Pensare che da piccola voleva fare la tennista:

“Poi, evidentemente, ho cambiato idea, e alla fine del liceo ho capito che mi piaceva la biologia. Però mi è rimasta la passione per gli sport di squadra”.

E allora, una volta che i suoi bambini si sono fatti un po’ più grandi, si è lanciata nel “Mamanet”, una specie di pallavolo rivisitata, pensata per le mamme che vogliono – fuor di metafora – scendere (o tornare) in campo:

“Per me è molto divertente, è una sana occasione per allenarmi e staccare dal resto”.

In questo modo anche il giro dell’orologio di certi giorni al servizio della salute dei più piccoli si fa più lieve:

“Lavoriamo, comunque, sempre con ottimismo: sappiamo che questa emergenza è una contingenza che passerà, e nel frattempo ci adoperiamo per fare il massimo per i bambini e le loro famiglie”. 

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