Francesca, incontrata in un corridoio del Meyer, è una presenza accogliente e un insieme di attenzioni rivolte a qualcuno: ai suoi cani, ai bambini, ai loro genitori. C’è un copione che si ripete felice.

Lei arriva – cani al seguito, anzi davanti – e si susseguono, nell’ordine: sorrisi, parole, carezze, code che si entusiasmano, persone piccole e persone grandi che si fermano e alimentano il circolo di contentezza in atto. Questo succede ogni volta che al Meyer entrano i cani della pet therapy. E succede da oltre vent’anni.

Francesca Mugnai è la presidente di Antropozoa, l’associazione che conduce l’attività di pet therapy nel nostro ospedale grazie al sostegno della Fondazione Meyer.

“Era il 2002 quando, con Alexis, cofondatore di Antropozoa, l’abbiamo introdotta al Meyer – ripercorre – all’epoca era una novità assoluta, mancava completamente la cultura degli animali nel percorso di cura e l’ospedale, con la sua Fondazione, ha voluto scommetterci”.

Scommessa vinta: oggi i cani di Antropozoa sono a tutti gli effetti parte integrante di un lavoro di squadra fatto con gli operatori sanitari e i medici prescrivono in cartella clinica la pet therapy esattamente come fanno con le medicine.
Quattro volte a settimana, tre operatori e quattro cani si alternano nei reparti dell’ospedale:

“Oggi il nostro lavoro è ‘su chiamata’, per quel bambino, che ha quella necessità: veniamo attivati dai reparti, per specifiche esigenze dei piccoli pazienti”.

C’è chi ha bisogno di superare la paura del cane dopo un brutto morso, chi deve distrarsi durante una procedura fastidiosa per sentire meno male, chi deve trovare il coraggio di scendere dal letto e camminare dopo un intervento chirurgico.
E c’è chi, invece, ha necessità fermarsi:

“In Neuropsichiatria, ad esempio, dove il nostro lavoro ultimamente è concentrato, il cane assume un altro ruolo ancora: diventa una presenza che stempera, che raduna intorno a sé diversi pazienti, li fa uscire dalle stanze, li porta a fare gruppo. Molto particolare, ad esempio, è quello che succede con i ragazzi e le ragazze con disturbi alimentari: i cani li invitano a fermarsi, spontaneamente, anche quando la loro patologia li porterebbe invece ad essere sempre in movimento”.

È questa la scientifica alchimia dei legami uomo-animale, il calore che si sprigiona da una carezza orizzontale, la forza che dà e riceve una manina stretta attorno a un guinzaglio.

“Negli anni il nostro lavoro è cambiato tanto, oggi c’è una accettazione immediata, nessuno sgrana più gli occhi vedendo un cane in corridoio. Questo è successo anche grazie alla complicità degli operatori sanitari del Meyer, che hanno saputo accogliere gli interventi assistiti con gli animali come una risorsa”.

E allora eccoli lì, che scendono dal loro furgoncino nel parcheggio dell’ospedale, prima di entrare in servizio, con il pelo lucido e profumato (le norme igieniche sono ovviamente rigorose). Sono già la seconda generazione di operatori pelosi al lavoro al Meyer – discendenti degli indimenticabili pionieri Budino, Polpetta, Muffin e Malì  – e rispondono festosi ai nomi di Cecco, Gala, Chia e Nina. Ognuno è terapeutico a modo suo:

“Ci riteniamo molto fortunati, perché nel nostro lavoro al Meyer raccogliamo quotidianamente sorrisi – condivide Francesca –  Entriamo nelle storie dei bambini, li vediamo crescere, diventare genitori a loro volta e dopo tanti anni ci cercano ancora, ricordandosi dei cani hanno incontrato: da poco, ad esempio, mi ha scritto una ragazza che ancora ha in mente di quando ha aperto gli occhi in Rianimazione e ha trovato accanto a sé il nostro Muffin”.

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